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Reinhold Messner, il Nanga Parbat e l’alpinismo

In Spagna c’è un programma in prima serata sulla più
importante rete nazionale che parla d’alpinismo A lo filo de lo impossible.
In Italia l’alpinismo ha conquistato le prime pagine per i luttuosi eventi dell’estate,
mentre sabato scorso ha riconquistato la prima serata su RAI 3 al programma
Che tempo che fa, dove Fabio Fazio ha intervistato il mito vivente
dell’alpinismo: Reinhold Messner, che nell’occasione presentava il suo ultimo
libro. In questo libro, Messner racconta il Nanga Parbat dai
primordi dell’alpinismo ai giorni nostri, attraverso le parole dei protagonisti
delle spedizioni che ne hanno scritto la storia.

Ma le parole di Messner sono pesanti come la lama di una
scure che taglia il legno. Sul Nanga Parbat, nel 1970, Messner perse il
fratello Guenther suo compagno di cordata. Oltre al dolore della perdita, gli
portò quello dell’infamia.

Per 35 anni sono stato accusato di aver sacrificato
all’ambizione la vita di mio fratello. Allora, per giorni, non ho fatto altro
che cercare di salvarlo. Una scelta talmente ovvia che per me non c’era bisogno
di altre spiegazioni. Solo i miei compagni e molti moralisti vedevano la cosa
in modo diverso.

Durante la salita non c’erano problemi – ha detto Messner
– le liti nascono dopo, quando la gente cerca le scuse, si fa prendere
dall’invidia.

I fratelli Messner raggiunsero la vetta, nel 1970, salendo
dal versante Rupal: la parete più alta del mondo, 4500 metri di dislivello. Ma
lassù, Guenther non si sentì bene, e così Reinhold decise di scendere dal
versante Diamir, più semplice. In discesa avvenne la tragedia e Guenther cadde
scomparendo in un crepaccio quando erano quasi fuori dalla parete. Per anni
Messner venne accusato di mentire, e sospettato di aver abbandonato il fratello
per inseguire la sua gloria personale.  

Solo nel 2005, quando riaffiorarono i resti di Guenther alla
base della parete Diamir, Reinhold venne scagionato. Ora, dopo tanti anni,
Messner cerca di ricostruire la dolorosa storia di questa montagna e di
rimettere insieme i pezzi della sua tragedia personale. Alla quale solo adesso
riesce a dare una spiegazione.

Credo sia stato il senso di colpa dei miei compagni –
racconta Messner -. Erano convinti che fossimo morti perchè eravamo spariti da
giorni. Hanno pensato che fosse impossibile scendere dal Diamir, che fossimo
morti vicino alla cima e che quindi fosse impossibile venirci a prendere. Così
non si sono mossi. Ma quando mi hanno visto ritornare, hanno capito il loro
errore. E per scusarsi, per soffocare il senso di colpa di non
averci aiutato, hanno inventato queste storie che mi descrivono come un mostro.
Una situazione molto simile al caso di Bonatti, sul K2, che venne accusato di
aver rubato l’ossigeno e di aver imbrogliato dai due alpinisti che arrivarono
in cima e che lo abbandonarono al bivacco a ottomila metri.

Anche sulle tragedie estive del Nanga Parbat, Messner ha
un’opinione precisa: 

Unterkircher era un grande alpinista. La gente deve
capire che noi andiamo nei posti più pericolosi del mondo per non morire, per
vivere. Oggi l’alpinismo è diverso da quando io ho iniziato. Si può comprare la
salita all’Everest, che resta rischiosa ma vale poco se vissuta come una gita
preconfezionata. Io lo chiamo alpinismo di pista, che non ha niente
a che vedere con l’alpinismo di Cassin, Bonatti e spero il mio. Un alpinismo
che va dove gli altri non vanno, che cerca il contatto tra l’uomo e queste
montagne nude, non messe in scatola dall’uomo.

Giancarlo Costa

Snowboarder, corridore di montagna, autore per i siti outdoorpassion.it runningpassion.it snowpassion.it e bici.news. In passato collaboratore della rivista SNOWBOARDER MAGAZINE dal 1996 al 1999, collaboratore della rivista ON BOARD nel 2000. Responsabile tecnico della rivista BACKCOUNTRY nel 2001. Responsabile tecnico della rivista MONTAGNARD e MONTAGNARD FREE PRESS dal 2002 al 2006. Collaboratore della rivista MADE FOR SPORT nel 2006.