Nevediversa: Il turismo invernale nell’epoca della transizione ecologica e del covid
La crisi indotta dalla pandemia ha colpito duramente il turismo montano, in particolare l’industria della neve e il suo indotto. Uno studio di Legambiente sottolinea l’importanza di sviluppare un altro tipo di turismo, più dolce e slow, che tenga conto della sfida climatica in atto e costituisca un’alternativa alla monocultura turistica dello sci di discesa.
Un altro inverno ci attende, dopo quello del 2020/2021 che verrà ricordato a lungo dagli operatori turistici della montagna per la storica cancellazione della stagione sciistica e le conseguenti perdite di fatturato per tutto l’indotto, nonostante sia stato – ironia della sorte – tra i più nevosi degli ultimi anni.
La montagna, tuttavia, non è solo sinonimo di industria della neve. La crisi pandemica ha messo a nudo i limiti di un modello di fruizione turistica probabilmente troppo incentrato sullo sci di discesa e può essere l’occasione per esplorare in altre direzioni. Dai rifugi agli agriturismi, dalle guide alpine e escursionistiche agli artigiani e produttori locali, sono innumerevoli gli operatori del turismo dolce che in questa stagione non hanno potuto contare sulla loro clientela, italiana e straniera, faticosamente conquistata negli anni scorsi insieme a un notevole incremento degli addetti. Si tratta di un turismo che è cresciuto molto, acquisendo un peso specifico di cui tenere debito conto. A tutt’oggi, però, queste attività restano ancora all’ombra dello sci.
Ora l’Unione Europea chiede ai Paesi membri di sostenere una ripresa verde, in grado di arginare i cambiamenti climatici e creare nuovi posti di lavoro. Il Green Deal ci impone di affrontare il sistema montagna nella sua globalità, sviluppando tutte le sue potenzialità. Nell’era post-Covid 19 il settore montano, per le caratteristiche che gli sono proprie, può diventare uno straordinario spazio di sperimentazione del turismo sostenibile, puntando su attività come l’escursionismo a piedi e con le ciaspole, lo scialpinismo e lo snowboard-alpinismo o il ciclismo off road, purché regolate e normate per controllarne l’impatto.
Il dossier Nevediversa
Queste e altre considerazioni sono contenute nel dossier Nevediversa, pubblicato da Legambiente e arrivato quest’anno alla sua quarta edizione. Significativo il sottotitolo dello studio: Il turismo invernale nell’epoca della transizione ecologica tra conflitti, discordanze e preoccupazioni, ma anche buone pratiche e nuove speranze.
In centrotrenta pagine ci si interroga se, alla luce dei cambiamenti climatici in atto, sia ancora conveniente investire massicciamente e quasi esclusivamente nell’industria dello sci alpino, sostenendo crescenti costi ambientali, oltre che economici. I dati raccontano di un clima con temperature sempre più alte e precipitazioni sempre più scarse, anche se inverni come quello appena trascorso sembrerebbero contraddire quella che è una realtà ormai acclarata dalla scienza.
Le stagioni della neve dal 1960 al 2017 si sono accorciate in media di 38 giorni (dati Jeffrey Kluger –Time) e subiranno in futuro ulteriori contrazioni. Le previsioni di sciabilità per i prossimi decenni nei comprensori alpini (dati Ocse e Eurac) sono fortemente pessimistiche: con un aumento di temperatura di 4C° sulle Alpi Italiane la percentuale degli impianti accessibili si ridurrebbe del 12%.
Gli studi ci dicono che oggi abbiamo circa due gradi centigradi in più rispetto a inizio Novecento e che da qui al 2050 la temperatura media salirà di altri due gradi. Secondo gli esperti il riscaldamento potrebbe ancora aumentare, in media, di ulteriori 2 – 4 gradi entro fine secolo, con accrescimenti superiori nelle zone più fredde del pianeta come le nostre aree montuose spiega Vanda Bonardo, Presidente CIPRA Italia e Responsabile Alpi- Direzione Nazionale Legambiente. Per ogni grado in più, mediamente, la quota a cui si può trovare neve, che è oggi intorno ai 1500-1600 metri, si innalza di circa 150 metri. Facendo i calcoli ciò significa che se a fine secolo avremo 6 gradi in più la neve sarà presente solo a 2.400 metri circa, una quota che ben poche stazioni sciistiche si possono permettere. La Linea di Affidabilità della Neve (LAN), cioè l’altitudine che garantisce spessore e durata sufficienti dell’innevamento stagionale, sta risalendo con un ritmo vertiginoso. Essa stabilisce che il normale svolgimento di una stagione sciistica è possibile se vi è una copertura nevosa garantita di almeno 30 cm, per minimo 100 giorni. Dagli studi condotti nelle regioni alpine europee si stima che la LAN potrebbe elevarsi di 150 m per ogni °C di aumento della temperatura: ciò significa che con un aumento di temperatura di 5 gradi ci sarà una risalita di 750m, passando dai 1.500m di media stimati nel 2006 a come minimo 2.250m di altitudine.
A riprova di questa analisi il dossier Nevediversa esamina il caso di una stazione sciistica piemontese, Viola St Grée (CN), nata nel 1976 e oggetto di grandi investimenti, benché posta a soli mille metri di altitudine. La costruzione di un complesso abitativo e commerciale monstre denominato Porta della neve, fra i più grandi d’Europa, si è rivelato fallimentare così come altri analoghi in Piemonte e nel resto d’Italia, a causa delle nevicate sempre più rare e dei costi di gestione sempre crescenti. La dismissione degli impianti sciistici di bassa quota è oggi un destino cui tante piccole stazioni si ribellano, anche con il lodevole impegno delle popolazioni e amministrazioni locali, lottando ogni inverno in una sorta di accanimento terapeutico, per usare il termine utilizzato nel report.
Un nuovo modello di turismo montano
Nei prossimi anni arriveranno in montagna le risorse del Recovery Found e potranno essere intercettate anche dal turismo dolce invernale, portatore di molte buone pratiche e veicolo di un turismo esperienziale, attivo e sostenibile, culturale nonché enogastronomico.
Un esempio virtuoso è quello della Valle Maira, che accomuna sostenibilità ambientale e sociale ed è conosciuto più in Svizzera e Germania che da noi. Nella vallata vicino a Cuneo è stato realizzato un vero paradiso dello sci alpinismo e dell’escursionismo naturalistico e culturale, con la nascita di tante piccole strutture ricettive a carattere familiare.
Ma siamo davvero pronti ad una transizione di questo tipo?
Dobbiamo esserlo, non c’è più tempo da perdere – osserva ancora Bonardo – le persone e le imprese, che sono mediamente più pronte, possono fare massa critica per indurre al cambiamento anche le amministrazioni ed essere il motore per innescare un circolo virtuoso
La fruizione della montagna, anche se dolce, deve però sottostare necessariamente a delle regole. La corsa alla montagna che si è originata in seguito alle restrizioni anti-Covid ha messo in luce due ordini di problema. Il primo è quello di un’eccessiva mobilità e presenza in zone montane piccole e marginali, fino a ieri non frequentate, e ora prese d’assalto da famiglie armate di slittini e borse picnic, con parcheggi selvaggi e intasamenti sulle strette strade di montagna. Il secondo, strettamente connesso agli affollamenti in montagna, riguarda il pericolo di disturbo della fauna selvatica, e la necessità di creare un sentimento condiviso di rispetto della natura.
Anche i parchi possono svolgere un ruolo fondamentale, insieme ad altre amministrazioni come le Unioni montane, nel coordinamento e nella pianificazione conclude Bonardo.
Il futuro in mano nostra
Teniamo conto che le stazioni sciistiche si sostengono in parte con fondi pubblici, quindi della collettività, ma sono prevalentemente in passivo osserva Enrico Camanni, giornalista e scrittore esperto di ambiente.
In altri Paesi, come la Svizzera, si parla di chiudere gli impianti al di sotto dei 1800 metri di altitudine, anche perché i fallimenti li paga la comunità, che eredita strutture fatiscenti. Oggi ha senso la sopravvivenza dei soli grandi comprensori, posti a altitudini elevate, o al massimo delle piccole stazioni gestite in modo sostenibile, che riescono a lavorare con il turismo anche nelle mezze stagioni o d’estate, come Prali, tanto per restare in Piemonte. Lo sci di discesa rischia di diventare uno sport elitario, con crescenti costi legati all’innevamento artificiale e problemi di assetto idrogeologico per la creazione dei grandi bacini di alimentazione dei cannoni.
Oggi la montagna ha il proprio futuro nelle sue mani – prosegue Camanni – perché a differenza di un tempo è diventata di tutti: un fatto di per sé positivo ma che pone nuove esigenze. Diventa fondamentale il ruolo delle amministrazioni pubbliche nell’informare i cittadini, indirizzarli in modo da ridurre l’impatto ambientale dei crescenti flussi turistici. Occorre differenziare le attività ed educare all’ambiente nelle scuole di alpinismo, di escursionismo e nelle sedi CAI, certo, ma soprattutto nelle scuole dell’obbligo. I parchi hanno un ruolo importante come laboratori e motori dell’educazione ambientale e nell’invogliare le persone a un turismo meno ‘mordi e fuggi’ e più di approfondimento. Esiste un’ampia ‘zona grigia’ di fruitori della montagna, posta tra chi la considera una sorta di luna park e chi ne è un estimatore attento e preparato. Occorre lavorare con attenzione su questa porzione di turismo, ne va del futuro della montagna e di tutti noi conclude Camanni.
Fonte Piemonte Parchi