Dal meno al più, da Govone al Monviso, la Granda traversata in salita
“Da soli si capisce poco e si ride mai (Cesare Pavese)
Due ruote (per uno), due gambe (a testa), due amici in tutto. E un diabolico spunto per passare un finesettimana in movimento. È un piovoso pomeriggio di metà settembre, quando, con un sinistro bagliore negli occhi celesti, Fabio rilancia da dietro il tavolino del bar: «dal punto più basso a quello più alto della provincia di Cuneo, senza motore». Mauro – forse distratto, probabilmente imprudente, di sicuro incosciente – accetta senza esitazione e chiude l’asta: «facciamo tra due settimane, che sabato si sposa mio cugino». Affare fatto. Il numero minimo di ogni impresa che contempli oltre alla fatica anche le risate è così raggiunto: due.
Due non è il doppio dell’unità: è il contrario di uno e della sua solitudine sufficiente, secondo Erri De Luca, che di queste cose ne capisce. Quante cose può fare una persona sola? «Uno da solo può fare molto: può fare la pipì può addormentarsi/può fischiare può svegliarsi/può prendere a sassate dei lampioni/può rompersi i marroni a non finire…» rincara la dose Lorenzo da Capo Horn. Insomma, poco che sia degno di essere ricordato può esser fatto in totale solitudine – e nulla di divertente.
Così due sono i protagonisti di questa anomala traversata in salita della Granda – e sommandone le età non c’è verso di arrivare alla pensione: l’andonnese Mauro Giraudo e Fabio Cavallo di Peveragno, 59 anni in tutto. Cresciuti rispettivamente all’imbocco della valle Gesso e all’ombra della Bisalta, in montagna ci vanno sempre e da sempre: a piedi, di corsa, sugli sci, in bicicletta, in parapendio, in skyroll. E fermateli, se ci riuscite.
Naturalmente, un’idea balzana merita proseliti: in breve altri due personaggi offrono i loro servigi per l’improbabile avventura. Max (geologo massaggiatore con delega alla Credibilità) li accompagnerà dalla partenza fino a circa metà percorso e chi scrive (antropologa con delega ai Rapporti col pubblico) cercherà di rendersi utile per il tratto che manca arrancando dietro ai due e provando a sopravvivere per raccontarla.
Il progetto è semplice e monodirezionale: da giù a su, dal punto più basso della provincia di Cuneo a quello posto a una quota maggiore. Finché si può con la bici da corsa e poi via di corsa senza le bici.
Perché decidere di unire col solo ausilio di piedi e pedali il punto più basso e quello più alto? Voglia di record? Tentativo di impresa? Due paia di occhi azzurri si confrontano in cerca di plausibilità. Macché. Voglia di ricordi intensi da portare a casa, piuttosto; gusto di spiazzare il corpo e provocare la mente costringendosi allegramente a un viaggio faticoso e inedito; piacere dell’avventura dietro casa. Altro? Ah, sì. Divertirsi con poco (una bici, le gambe) e come riesce facile solo ai bambini: senza prendersi sul serio. «…E poi devo vendicarmi della volta che Mauro mi ha convinto a andare a Terme di Valdieri con la bici, fare la cima Ghigliè con gli sci, scendere a Cuneo e correre la mezza maratona», aggiunge Fabio con uno sguardo obliquo in direzione del compare. Mauro si stringe nelle spalle con un sorriso innocente. Io mi limito a guardarli perplessa.
Quale sia il punto più in quota della Granda, (così viene chiamata la provincia di Cuneo) non c’è cuneese che non lo sappia: è il Monviso, dall’alto dei suoi 3841 metri sul livello del mare. Qual è il punto più basso invece se lo sono chiesti anche Mauro e Fabio, fino a giungere, ovviamente, alla conclusione sbagliata: solo una provvidenziale rettifica in extremis del Comitato scientifico dell’iniziativa, ancora nella persona del versatile Max, ha impedito a un paio d’ore dal via che i nostri partissero da Santo Stefano Belbo (170m slm) invece che dal distributore di Govone, Comune che dal basso dei suoi 130 metri circa sul livello del mare potrebbe fregiarsi, in uno di quegli improbabili cartelli che segnalano agli automobilisti le peculiarità locali, del prestigioso titolo di “punto più basso della provincia” o anche, a seconda del grado di autoironia dell’amministrazione, “pian dei babi”.
La tabella di marcia prevede il passaggio da Alba, Bra, Cherasco, Costigliole Saluzzo e la risalita della val Varaita con arrivo in notturna a Castello di Pontechianale (1700 metri circa). Lì le bici saranno accantonate e avverrà il cambio di scarpe e di vestiti per affrontare a piedi i rimanenti 2141 metri di dislivello. Praticamente una passeggiata.
Il giorno fissato è una notte, tanto per iniziare. Infatti Mauro e Fabio partono intorno alle 23,00 del primo sabato di un ottobre decisamente complice: al di sopra della pompa di benzina non manca una costellazione all’appello e le previsioni per l’indomani si annunciano nientemeno che splendide. I due partono decisi: sarà che non ha ancora visto un sellino quest’anno, sarà che non è mai montato in vita sua su una bici da corsa, ma Mauro in testa pedala come un indemoniato e Fabio segue a ruota. Tant’è che riescono astutamente a seminare fin da subito il mezzo di assistenza tecnico-spirituale (guidato dal solito Max), che raggiunge i fuggitivi soltanto nei paraggi di Bra, collezionando foto sfocate a ogni volenteroso tentativo di immortalare le due saette.
Da Costigliole in su è Fabio a fare il ritmo e con i primi 1500 metri di dislivello iniziano a fare capolino un po’ di sonno e di fatica. «Anche perché, a pensarci bene, mi sono dimenticato di dormire» noterà più tardi Mauro con tardiva intuizione. Intorno alle 5,00 di un’alba che si fa ancora desiderare, dopo circa 110km pedalati nelle tenebre, i due approdano a Castello, dove avviene la trasformazione da bat-ciclisti notturni in skyrunner assonnati. Mauro ostenta un accappatoio arancione (si è dimenticato la maglia di ricambio) e sfoggia un paio di occhiali senza lenti che sembrano masticati da un caimano: «li abbiamo trovati spiaccicati lungo la strada: conferiscono un’aria interessante, no?». E la scusa della stanchezza vale solo fino a un certo punto.
Stivato lo stretto necessario in un piccolo zaino, si unisce alla spedizione anche la sottoscritta, le cui uniche speranze di star dietro ai due invasati sono legate all’acido lattico che, con un po’ di fortuna, hanno già adeguatamente accumulato nelle gambe.
La salita verso il bivacco delle Forcioline inizia alle 7,00 in punto in un clima di generale entusiasmo: «se tu scendi dalla macchina io ti seguo» «veramente pensavo di dormire e di raggiungervi più tardi» «facciamo che apro il finestrino per acclimatamento» «facciamo che lo chiudi per assideramento» «sai che c’è? S’vanta feilu fumlu». E via.
La salita inizia ripida e si mantiene sullo stesso tono con mirabile coerenza. Lasciata sulla sinistra l’ampia sterrata e alle spalle qualche escursionista con aria interrogativa, imbocchiamo il canale che porta rapidamente al lago e al bivacco (ore 8,30). Sul versante sud non è rimasta alcuna traccia della prima spolverata di neve e l’aspetto siccitoso dei laghi tradisce il caldo di una lunga estate che fatica a prendere congedo.
All’Andreotti facciamo una pausa immersi nel calore e nella luce di un mattino generoso: l’autunno srotola intorno a noi uno strabiliante cielo azzurro dalle Cozie all’infinito. Mentre Fabio accantona gli integratori e affida la sua prestazione a un eroico panino al salame, il terzetto è raggiunto dal simpatico Valter di Villafranca, che così giustifica la sua presenza: «da là sotto prima o poi ti vien voglia di salire qua sopra». Bene. Arruolato. E pazienza se in realtà si chiama Alessandro: con una simile faccia da Valter impiegare qualsiasi altro nome sarebbe uno spreco.
L’ultima parte della salita è un incrocio di comitive che salgono, scendono, si incastrano, si aspettano, si salutano. Raggiungiamo la vetta alle 11,00, in un delirio di reduci dalla cresta Est tintinnanti di ferraglia, “normalisti” intrepidi e alpiniste timide al guinzaglio del consorte nel tentativo di una inverosimile conserva.
Mauro si ricorda improvvisamente di avere sonno e si accascia ai piedi della croce, incurante dei servizi fotografici che si svolgono intorno e sopra alla sua carcassa. Dal canto suo Fabio, scortato da un Valter stremato ma sorridente, sta portando a termine i 500 metri di dislivello più lunghi degli ultimi 27 anni: giunto in cima si abbandona al sonno su una mensola rocciosa che gli conferisce l’aspetto rassicurante di un gatto sul cornicione. «Anche questa è in archivio», rantola abbracciando il compare prima di perdere i sensi. Avvolti dalla luce abbagliante di quello che si preannuncia come un pomeriggio di imbarazzante bellezza, scattiamo qualche foto e iniziamo la discesa, funestata qua e là dalle scariche di pietre innescate dall’incauto di turno.
Dodici ore e quasi 3800 metri di dislivello: tanto ci è voluto per unire Govone al Viso, il pavimento e il tetto della Granda. Senza benzina, solo tanta birra. Metaforica e letterale come quella che ci aspetta a Casteldelfino. Sotto alle palpebre pesanti si affollano pensieri confusi, sospesi a mezz’aria nel vuoto che lascia ogni meta sognata e poi raggiunta. «Se ti è nato il gusto di scoprire non potrai che sentire il bisogno di andare più in là» scriveva Bonatti: se coltivi la voglia di inventare nuovi modi di divertirti in montagna non sfuggirai per molto alla tentazione di una nuova partenza. Vale per tutti, a maggior ragione per teste irrequiete che ogni giorno guardano alle Alpi, quello che scriveva Giampiero Motti nel 1979: «il più delle volte l’avventura non è lontana, è lì sulla porta di casa, anzi – meglio – è in noi, a patto che si voglia tornare un po’ semplici, attraversando tutto l’oceano della complicazione umana».
«Ehi Fabio?» «Che c’è?» «Ho un’idea» «…». Non c’è verso: certa gente l’avventura non sa proprio tenersela sotto pelle. (Irene Borgna)