Le Tracce Verticali di Hervé Barmasse – Gressoney Saint Jean (Ao)
Ieri mercoledì 20 agosto, serata con Hervé Barmasse nella rassegna “Tracce Verticali” a Gressoney Saint Jean, ideata e condotta da Andrea Gallo. Si parla d’alpinismo con uno dei protagonisti della nuova generazione. Hervè è di Cervinia, ed oltre che essere una guida come il padre, il nonno ed il bisnonno, ha ereditato da loro la passione per i viaggi e l’alpinismo esplorativo. Sta dedicando energie, tempo e passione per cercare di salire cime ancora inviolate, dalla Patagonia al Pakistan, facendo una scelta in controtendenza rispetto a chi pratica l’alpinismo di punta sulle vie normali degli 8000 himalayani.
In questa serata ha presentato la sua penultima spedizione, mostrando in anteprima il video “Fixed Rope – La ruta de l’hermano”, per la regia di Valeria Allievi, che lo vede protagonista ed operatore con Cristian Brenna e Giovanni Ongaro. Tre tentativi, dal 2006 al 2008, per salire la parete nord ovest del Cerro Piergiorgio, 1000 metri di dislivello su granito, una parete simile al Capitan, ma in condizioni ambientali certamente diverse poiché si trova in Patagonia. Le emozioni di un viaggio, sia orizzontale (visti i tanti chilometri dell’avvicinamento) che verticale, con momenti anche delicati come l’infortunio alle mani patito da Giovanni Ongaro, che ha visto il lieto fine l’8 febbraio di quest’anno, con la prima salita di Brenna e Barmasse.
Al termine della visione del film, Andrea Gallo ha intervistato Hervè Barmasse, che è appena tornato dal Pakistan, dove assieme a Simone Moro, ha salito la cima inviolata del Bekka Brakai Chhok, montagna alta 6970 metri.
In questa salita si è messa in luce la sua polivalenza alpinistica. Come per i tentativi di salita al Cerro Piergiorgio era stato perseverante e testardo, nel provare per tre anni consecutivi, in questo caso sono stati improvvisatori e si sono adattati ad una nuova situazione. Dovevano salire una montagna, il Batura II, di 7800 metri, che in pratica era la montagna più alta al mondo non ancora scalata. Accortisi che c’era una spedizione coreana che aveva lo stesso obiettivo, hanno deciso di cambiare il loro, salendo il Bekka Braakai Chhok in stile alpino, cioè senza portatori, campi intermedi e leggeri per abbigliamento e viveri, tanto da battere i denti nell’improvvisato bivacco a 6500 metri, come ha ricordato Hervè nel suo racconto.
A questo punto, con le domande di Andrea Gallo, il discorso è inevitabilmente scivolato sulla spettacolarizzazione che i media hanno fatto delle vicende alpinistiche di quest’estate 2008.
Hervè ha ricordato che l’alpinismo è fatto anche di queste cose, che ogni vicenda ha una storia a se. Il Nanga Parbat, con la scomparsa di Karl Hunterkircher e la realizzazione della nuova via di Nones e Kehrer sono state una cosa profondamente diverse dalla vicenda del K2. Anche lui e Simone Moro erano stai allertati per un eventuale soccorso, anche se in himalaya ed a quelle quote, non si possono certo improvvisare delle operazioni di soccorso. Ha ricordato che i due alpinisti sopravvissuti non hanno abbandonato nessuno, ma hanno continuato nonostante la tragedia della perdita del loro capospedizione, e autonomamente sono riusciti a completare la salita e la discesa che era il loro obiettivo.
Ha poi analizzato la vicenda del K2, secondo il suo parere profondamente diversa, dove gli errori umani sono stati alla base delle 11 morti avvenuti tra alpinisti occidentali e portatori d’alta quota sherpa, qualcuno dei quali ha perso la vita proprio per essere risalito a salvare un loro cliente “alpinista di punta” della spedizione.
Una tragedia che ha ricordato quella descritta nel libro “Aria sottile” di Krakauer, ma allora si trattava di una spedizione commerciale, qui di alpinisti professionisti di fama.
Alla luce di questi fatti le spedizioni di Hervé assumono ancora un valore maggiore, perché le quote saranno minori degli 8000, ma le difficoltà tecniche, l’isolamento, la necessità di muoversi e decidere autonomamente alzano il livello di difficoltà di queste salite.
Le parole di Hervé ci riavvicinano alla dimensione vera dell’alpinismo, stravolta dalle notizie quotidiane di incidenti e lutti, di chi va in montagna per trovare l’avventura, per mettersi alla prova nella natura selvaggia, usando “mezzi leali”, con la filosofia degli alpinisti britannici dell’800 e non certo per diventare un eroe ad ogni costo.
Forse quelli come lui e Simone Moro hanno una colpa, quella di essere capaci di usare la tecnologia per comunicare quello che fanno al mondo in tempo reale.
Ma Hervè ha ricordato che anche suo nonno quando andò per sei mesi ad esplorare le montagne della Patagonia, se avesse potuto, anziché scrivere e spedire lettere, avrebbe usato il satellitare per sentire le voci della sua famiglia.