L’antivirus è non distruggere gli habitat naturali?
Patogeni e malattie non sono una condanna divina, bensì una manifestazione della Natura per ristabilire equilibri ecologici perduti. Il modo migliore, quindi, per prevenire il prossimo focolaio nell’uomo è considerare la salute umana, animale e ambientale indissolubilmente legate.
No volveremos a la normalidad, porqué la normalidad era el problema (Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema) è la scritta che campeggia su un edificio a Santiago del Cile e che ha fatto il giro del mondo.
Un messaggio nato in un contesto di protesta civile che però bene si presta a esprimere la necessità di riconsiderare e mettere in discussione quella che fino a oggi abbiamo considerato normalità.
La recente pandemia ha messo in crisi le società di tutto il mondo e in particolare quelle dei Paesi più industrializzati. Ma è anche vero che i cambiamenti più profondi derivano spesso da contingenze drammatiche che costringono le persone e le società a riesaminare radicalmente il proprio modello di vita.
Viviamo in un Antropocene, dove l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, è stato fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana.
Il rapporto 2019 dell’Ipbes – il comitato internazionale e intergovernativo scienza-politica che per conto dell’Onu si occupa di biodiversità e ecosistemi – ha dichiarato che il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino sono stati modificati in modo significativo dall’uomo, e che circa 1 milione di specie animali e vegetali sono a rischio di estinzione.
Se consideriamo che, negli ultimi 50 anni, la popolazione umana mondiale è raddoppiata (oggi siamo 7 miliardi e 770 milioni e si stima saremo circa 11 miliardi nel 2030), è comprensibile come il fabbisogno di risorse naturali sia aumentato e di conseguenza, indirettamente, sia aumentato anche l’inquinamento. I gas serra sono raddoppiati dal 1980 a oggi e hanno contribuito all’ormai acclarato aumento della temperatura media terrestre.
Virus e inquinamento
Secondo quanto dichiarato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ogni anno circa 3 milioni di persone in tutto il mondo muoiono prematuramente a causa dell’inquinamento dell’aria. Dagli studi dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) emerge che ogni anno in Italia muoiono per questa ragione circa 34mila persone, vale a dire 100 individui al giorno.
Forse per questa ragione, è stato confortante constatare che subito dopo il ‘blocco’ delle attività, c’è stata una diminuzione dell’inquinamento nelle grandi città.
L’Agenzia Spaziale Europea ha diffuso un’animazione delle immagini raccolte dal satellite Copernicus Sentinel-5P, che mette a confronto le emissioni di diossido di azoto in tutta Europa dal 1 gennaio 2020 fino all’11 marzo 2020. Ed è evidente che il periodo del blocco ministeriale per il Coronavirus veda una rapida riduzione della nuvola rossa di diossido di azoto sull’Italia settentrionale.
Il diossido di azoto (NO2) è un gas inquinante, tossico e irritante, generato dalla combustione di combustibili fossili, per cui fortemente legato sia alla produzione industriale che agli impianti di riscaldamento e al traffico stradale.
Non può essere un caso che i due focolai più grandi di questa pandemia, la provincia cinese dell’Hubei e la Pianura Padana, siano entrambi zone industriali ad alto tasso di inquinamento atmosferico.
Lo spillover, ovvero il salto della specie
L’origine della malattia da Covid-19, causata dal virus SARS-CoV-2, trova origine, al momento, in un primo focolaio individuato in un mercato alimentare di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei, in cui si vendevano animali d’allevamentoe selvatici. A favorire lo spillover o salto di specie, e quindi il passaggio e l’adattamento nell’uomo, è stato probabilmente lo stretto contatto con animali selvatici, vivi e morti, all’interno di quel mercato.
Interessante, sull’argomento zoonosi, le malattie trasmissibili dagli animali all’uomo, è l’articolo The Ecology of Disease (L’ecologia della malattia) di Jim Robbins pubblicato nel 2012 su The New York Time ancora drammaticamente attuale.
Qui si fa riferimento ai servizi ecosistemici, ovvero ai molti modi con cui la natura sostiene il genere umano. Il progetto di ricerca internazionale Millenium Ecosystem Assessment individua quattro categorie di benefici: supporto alla vita (come il ciclo dei nutrienti, la formazione del suolo); approvvigionamento (per esempio la produzione di cibo, acqua potabile, materiali o combustibile); regolazione (del clima e delle maree, depurazione dell’acqua, impollinazione, controllo delle infestazioni); valori culturali (fra cui quelli estetici, spirituali, educativi e ricreativi).
Se non riusciamo a capire e a prenderci cura del mondo naturale, questo può causare il collasso di questi sistemi e creare problemi spesso sottovalutati. Un esempio cruciale è il modello di sviluppo delle malattie infettive, che si sono verificate negli ultimi decenni, AIDS, Ebola, West Nile, SARS, malattia di Lyme e altre centinaia: tutto dimostra che la maggior parte delle epidemie non accadono per caso, ma sono il risultato di azioni che gli umani compiono nei confronti della natura.
Le epidemie come risultato delle nostre azioni
Le malattie sono in gran parte problemi ambientali. Il 60% delle malattie infettive emergenti che colpiscono gli esseri umani sono zoonotiche, cioè hanno origine negli animali, e più di due terzi di queste hanno origine nella fauna selvatica.
Si chiamava PREDICT il progetto dell’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti, avviato nel 2008, che doveva rafforzare la capacità globale di identificare i virus zoonotici che rischiano di causare una pandemia.
Negli anni, il progetto ha raccolto 140.000 campioni biologici da animali, trovato oltre 1000 virus nuovi compreso un nuovo ceppo di Ebola. Ha anche formato circa 5000 persone in 30 paesi africani e asiatici, e costruito o rafforzato 60 laboratori di ricerca medica, sopratutto in paesi poveri.
In tutto sono stati spesi 207 milioni di dollari ma a fine 2019 i finanziamenti non sono stati rinnovati proprio mentre il Coronavirus cominciava a farsi conoscere. Ora, considerando le enormi somme di denaro spese per combattere la Covid-19 e le perdite economiche che ne conseguiranno, si spera che gli investimenti necessari per monitorare le zoonosi siano considerate una priorità. Non si tratta, infatti, solo di un problema di salute pubblica, ma anche di economia: la Banca mondiale aveva stimato, già nel 2012, che una grave pandemia di influenza sarebbe potuto costare all’economia mondiale 3mila miliardi di dollari.
La COP15 della Convenzione sulla biodiversità deciderà gli obiettivi 2021-2030 tra i quali il rifinanziamento del progetto Predict e il divieto di commerciare specie selvatiche. Dovrebbe tenersi a Kunming, nello Yunnan, dal 15 al 29 ottobre 2020.
Le malattie sono sempre uscite dai boschi
E dalla fauna selvatica, per trovare la loro strada nelle popolazioni umane: la peste e la malaria sono due esempi. Le malattie emergenti sono quadruplicate nell’ultimo mezzo secolo, dicono gli esperti, in gran parte a causa dell’aumento dell’invasione umana degli habitat naturali, soprattutto nelle zone più a rischio nelle regioni tropicali. Gli effetti negativi sono ulteriormente potenziati dalle possibilità di viaggiare oggi in ogni parte del mondo.
Il modo migliore, quindi, per prevenire il prossimo focolaio nell’uomo è considerare la salute umana, animale e ambientale indissolubilmente collegate.
I patogeni e le malattie non sono una condanna divina, ma sono una manifestazione della Natura per ristabilire quegli equilibri ecologici dai quali ci siamo allontanati. E’ forse giunto il momento di prendere atto che il nostro modello di progresso non è più sostenibile?
La minaccia di questo virus sconosciuto ci ha costretto a una riflessione, non solo individuale ma anche collettiva, per un cambiamento in nome di un bene più grande e comune: la vita sulla Terra.
Fonte Piemonte Parchi