La vita è il dono più grande che abbiamo e nessuno me l’ha portato via, anche se ci sono arrivato molto vicino -Marco Confortola
La tragedia del K2 dell’estate del 2008 ha fatto molto parlare e discutere, non solo nel mondo alpinistico. Giorni di ghiaccio è il libro nel quale ha raccontato la sua verità, i suoi ricordi che rimarranno indelebili anche nella sua carne per le amputazioni subite. L’intervista di Veronica Balocco ad uno dei personaggi più discussi dell’alpinismo contemporaneo: Marco Confortola.
E’ quello senza dita dei piedi. Per tutti, anche per chi di montagna sa giusto l’essenziale, Marco Confortola è l’alpinista che ci ha rimesso dei pezzi. A poco più di un anno dall’amputazione di tutte le dieci dita a causa dei congelamenti riportati sul K2, nella spedizione dell’agosto 2008 costata undici morti, l’alpinista trentottenne della Valfurva ha ormai abbandonato la nebulosa degli sconosciuti. Dopo un libro, serate, interviste sulle riviste più glamour, partecipazioni televisive e radiofoniche, difficile trovare ancora qualcuno che non conosca la sua storia.
«Quello sono io», spiega lui dividendosi tra un Gran Zebrù e i taccuini su cui lasciare l’autografo. Lo chiamavano il Selvadek, ora è una preda dei mass media. Ma lui non ha paura. «Ai mezzi di comunicazione chiedo onestà e rispetto, poi facciano pure la loro strada – precisa lui -. Per me, l’unica cosa che conta è che posso di nuovo fare la guida alpina e portare in giro i miei clienti. Posso arrampicare, sciare, addirittura correre».
Allora Marco, sembra che tu stia bene ormai.
«Beh, non posso dire di non avere più male. Ne ho ancora, eccome. Però la strada ormai è in discesa. Sembrerà cinico, ma ogni volta che ripenso a quello che mi è successo mi accorgo che c’è una cosa positiva che non posso dimenticare: io sono vivo. Gli altri sono morti, ma io sono ancora qui e posso camminare. La vita è il dono più grande che abbiamo e nessuno me l’ha portato via, anche se ci sono arrivato molto vicino».
Insomma, alla fine dei conti eri tu il più forte su quella montagna.
«Non credo. Io mi sono salvato per una combinazione di fattori: la fortuna innanzitutto, ma anche il mio fisico che sa tenere duro e la grande esperienza che ho maturato con Gnaro. Lui è un combattente che viaggia sempre al limite e stargli dietro in dieci spedizioni mi ha insegnato a spingere le mie possibilità all’estremo. Però devo dire che anche papà e mamma hanno fatto la loro parte: quando si tratta di lottare, so essere davvero un animale».
A te è toccata in sorte la fortuna. Per gli altri allora è stata questione di sfortuna?
«Non lo so. Non posso dirlo. Io non li ho visti cadere né morire, per cui non ho idea di cosa sia successo. L’unica cosa che so, perché l’ho vista, è che Gerard, il mio amico Jesus, è precipitato dopo essere stato travolto dalla valanga. Degli altri non posso parlare».
Ma quanta superficialità hai visto in quella spedizione?
«Nessuno è stato superficiale, su questo non ho dubbi. L’unica differenza stava tra chi usava l’ossigeno e chi no, ma di certo tra noi non c’era gente inesperta».
E oggi? Vivi sempre con l’incubo di quei giorni?
«Ormai è andata.Ho smesso di pensarci. Quel che so è che sul K2 non tornerò mai più: ho raggiunto la cima, ma mi è costata troppo cara. A pensarci bene, c’è una sola persona per la quale potrei tornare ai piedi di quella montagna: mio fratello Luigi. Mi piacerebbe portarlo a vedere quei posti e fargli vedere dov’è successo tutto quanto. Ma dal basso».
Qualcuno ha detto che queste spedizioni finiscono sempre con qualcuno che deve venire a salvarvi. Insomma, che te la sei cercata e che altri hanno dovuto tirarti fuori dai guai.
«Sono critiche che lasciano il tempo che trovano. Facile dire queste cose qualunquiste e non ricordare invece che io e Gerard abbiamo fatto uno dei soccorsi più alti della storia dell’alpinismo. Lui è morto per darmi una mano a salvare i coreani. Perché nessuno fa mai parola di questo?».
Proviamo a fare chiarezza. Chi ha pagato le spese del tuo salvataggio?
«Di certo non i contribuenti italiani come ha detto qualcuno. Gli undicimila dollari per l’elicottero li ho tirati fuori prima io, poi sono stati gentilmente rimborsati dal Cai che mi aveva assicurato».
Ma chi ti ha salvato materialmente?
«Nessuno, io sono sceso con le mie gambe fino al campo base. Roberto Manni mi ha mandato incontro due sherpa della valle del Makalu, ma alla fine me la sono cavata da solo».
Le critiche che effetto ti hanno fatto?
«Mi ha fatto male vedere che tanti, giornalisti soprattutto, hanno parlato e scritto senza sapere. Non mi hanno chiamato per capire: hanno scritto quel che volevano e basta. Hanno sputato sulla spedizione, hanno criticato e giudicato, ma senza mai ricordare il soccorso che io e Gerard abbiamo fatto. E’ facile parlare quando si tiene il sedere al caldo, ma avrei voluto vedere se su quella montagna ci fossero stati i figli di chi ha riempito pagine e pagine di stupidaggini».
Già a Malpensa, appena atterrato, hai scelto di tenere una conferenza stampa per raccontare cos’era successo. Qualcun altro avrebbe avuto solo voglia di andarsene a casa, magari a riflettere un po’ sul senso di questo alpinismo.
«Non io. Io ho sempre voluto raccontare, ne ho sentito il bisogno fin da subito. Quella sera avevo voglia di parlare e l’ho fatto. Poi non me ne sono andato a casa, ma all’ospedale».
Anche dopo però hai continuato a parlare, addirittura scrivendoci sopra un libro. Una tragedia come quella valeva un’operazione commerciale?
«Su ogni montagna, su ogni tragedia è stato scritto un libro. Io volevo chiudere le polemiche mettendo nero su bianco la mia verità sul K2. Le cose sono andate esattamente come ho scritto e chiunque, specialmente chi mi ha criticato, ora può leggere la mia storia. E’ riduttivo e sbagliato vedere Giorni di ghiaccio come un’operazione commerciale».
Però il libro è stato venduto, non regalato. Non è commercio questo?
«Sì, ma io non ci ho guadagnato praticamente nulla. Anzi, mi sono preso anche delle grosse delusioni personali per colpa di quel libro. Forse solo Reinhold Messner, che è il più grande, può guadagnare scrivendo. Io no di certo, ma va bene così».
In ogni caso non ti è bastato scrivere la tua verità in un libro. Sei andato anche in tv, sui giornali, sulle riviste di costume. Perché?
«Perché non ho nulla da nascondere. Le altre persone possono anche calunniarmi, ma io la mia verità la racconto oggi e la racconterò tra cent’anni: è quella. E non vedo perché dovrei tacerla. Io credo molto nel valore del silenzio, ma penso che a volte sia anche bello parlare. E questo è uno di quei casi. Non faccio politica: semplicemente, dico quel che penso e lo faccio in modo molto diretto e sincero».
Ma tutte queste comparsate quanto ti hanno fatto guadagnare?
«Nulla. Basta chiedere a una qualunque delle tv o dei giornali che mi hanno ospitato: non mi hanno dato un soldo. Anzi, a volte mi sono dovuto pure pagare le spese di viaggio. Vuoi sapere che cosa mi fa guadagnare davvero?».
Cosa?
«I miei clienti. Io sono prima di tutto una guida alpina ed è grazie a loro che vivo. Sono loro i miei primi tifosi insieme con la mia famiglia e i miei amici veri. Su di loro posso contare davvero».
L’Himalaya allora resta un hobby?
«La mia vita è fare la guida alpina sulle montagne della Valfurva, tra la mia gente. A volte sono andato in vacanza in Himalaya mentre gli altri sceglievano il mare. Tutto qui».
Ma le vacanze tornano ogni anno. Ripartirai?
«Se trovo i soldi sì. Ma prima voglio pensare ai miei piedi: oggi non mi perdonerebbero ancora le sofferenze di un Ottomila. E senza di loro è un po’ dura partire».
Intervista di Veronica Balocco