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Gianni Goltz: di nuovo a casa dopo due anni a ottomila metri

La vera storia del recupero del corpo
dell’alpinista svizzero morto nel 2008 sull’Everes. Dieci giorni di operazioni. E in attesa
dell’elicottero, qualcuno gli ha anche rubato le scarpe.

Di Veronica Balocco

Otto sherpa in spola tra campo base e
campi alti, due piloti di lunga esperienza pronti ad alzarsi in volo, due
compagnie di elicotteri di altrettanti diversi continenti e un nome, quello di
Dario Schwoerer, noto al pubblico elvetico per una storia che da anni raccoglie
ammirazione e un po’ d’invidia. Passa di qui una delle storie più toccanti, e
allo stesso tempo tristi, che hanno costellato la tarda primavera
dell’alpinismo himalayano: il recupero del corpo di Gianni Goltz, la guida alpina
valmaggese morta sull’Everest per sfinimento nel 2008, durante una spedizione
senza ossigeno effettuata per accompagnare una squadra della televisione
svizzero tedesca SF sulle pendici della Dea Madre.

Il corpo dell’alpinista, rimasto a riposare
per oltre venti mesi a quota ottomila, era stato sepolto quel triste giorno di
due anni fa in una tomba di pietre a poca distanza dalla grande roccia nei
pressi di Colle Sud. Da lì, ai primi di maggio, è stato recuperato per essere
finalmente riportato a casa. Ma non è stata un’operazione semplice: solo dopo
una decina di giorni e un complesso insieme di passaggi, effettuati in parte a
terra e in parte in volo, Gianni ha potuto finalmente raggiungere Kathmandu,
dove la sua storia è tornata a rivestirsi della doverosa riservatezza
famigliare.

Cosa significa recuperare un corpo dal Tetto
del mondo, trasportarlo a valle, decidere quali operazioni effettuare e in
quali momenti, e soprattutto sentire sulle proprie spalle il peso del ruolo di
coordinatore di un intervento di questo genere? Dario Schwoerer, anima della
spedizione Top To Top, l’incredibile viaggio che dal 2002 sta conducendo con la
moglie, e ora anche tre deliziosi bimbi, con lo scopo di passare dai Sette Mari
alle Seven Summits per infondere ai più piccoli la fiducia in un futuro
migliore, è la persona che ha rivestito questi panni. E ora racconta anche
all’Italia, dove le informazioni sull’operazione sono arrivate frammentarie e
non sempre corrette, come si sono svolte quelle difficili giornate nelle quali,
data la concomitante tappa di Top To Top al campo base dell’Everest, si è
trovato a prendere decisioni in memoria e nel nome di un conterraneo che il suo
futuro ha dovuto abbandonarlo a 8mila metri.

Il merito – spiega Dario condividendo,
onestamente, la responsabilità con le persone con cui ha collaborato – va a
otto sherpa, guidati da Jyamchang Bhote dell’agenzia Active Holidays. Sono
stati loro, il 4 maggio, alle 2 del mattino, a partire materialmente da Campo 2
per Colle Sud, dove Gianni riposava. L’hanno raggiunto all’una del pomeriggio,
portando con sé tutto il materiale necessario per il recupero, compreso una
sorta di toboga. I normali alpinisti in genere impiegano due giorni per
arrivare così in alto…. La squadra, parte della spedizione di pulizia, era già
partita con l’intento di trovare Gianni e riportarlo in basso. Era una delle
volontà di cui si era fatto portavoce Kari Kobler, la famosa guida alpina
svizzera che da tempo organizza spedizioni himalayane con la società che porta
il suo nome, e che nel 2008 era patron della spedizione di cui Gianni faceva
parte. Tra gli uomini di punta del gruppo di Kobler accampato a maggio al Base
del versante nord c’era Jyamchang appunto, il quale ha assunto il ruolo di
leader del gruppo di recupero e ha tenuto i contatti, per tutto il tempo
dell’operazione, con Dario.

Gli sherpa della Active, guidati da Dorjee
Sherpa e coordinati a un più alto livello da Jamchang, hanno lavorato duramente
per un’ora e mezza nell’aria rarefatta per scoprire la tomba con le loro
piccozze ed estrarre il corpo – racconta ancora Dario -. Verso le 3 del
pomeriggio, hanno legato Gianni alla slitta. Ma la discesa non è stata
un’operazione facile. Superare la fascia gialla è stato particolarmente
critico – prosegue -, specialmente nei traversi. Hanno dovuto assicurarsi e
calare in corda doppia il corpo per almeno una cinquantina di volte! All’una
del pomeriggio sono arrivati al Bergschrund del Lhotse (l’intersezione tra la
parete e il ghiacciaio sottostante, ndr)
e hanno lasciato lì il corpo, poi sono tornati a Campo 2 per un breve riposo
prima di risalire e trasportare il corpo la mattina dopo fino a questo campo.
Un’impresa, nel vero senso della parola. Si sono stancati molto – racconta
ancora Schwoerer – e hanno patito un anche la fame dopo ventiquattr’ore di duro
lavoro e senza cibo caldo. Poi il tempo si è fatto brutto e si è alzato il
vento, cosa che ha reso impossibile il trasporto immediato dal campo 2 in
elicottero: L’alternativa – fa notare Dario – era di attraversare il
pericolosissimo Ice Fall con un peso da 80 chili, tra crepacci molto profondi,
seracchi e torri di ghiaccio pronte a crollare in ogni momento. Una scelta
obbligata, dunque: Esporre gli sherpa a un rischio di quel genere, quando
avevamo la possibilità di trasportare il corpo in elicottero sotto la guida dei
più famosi esperti svizzeri di recuperi estremi in alta quota, Gerold Biner, il
pilota, e Bruno Jelk, lo specialista, di Air Zermatt, era davvero stupido.

I due piloti, come le cronache di quei
giorni avevano già raccontato, si trovavano infatti in Nepal per organizzare un
sistema di soccorso locale: uno scopo raggiunto con la collaborazione della
nepalese Fishtail Air, i cui elicotteristi Sabin Basnyat e Siddhartha erano
stati individuati come partner ideali. E così – continua Dario – nei giorni
seguenti il mio compito è stato quello di allestire e coordinare tutto
l’occorrente per il recupero. La cosa più difficile è stata individuare la
finestra di bel tempo: il 16 maggio mi è sembrato il giorno giusto, con poco
vento come avevamo bisogno che fosse. Scelto il momento, Dario ha dato a
Jyamchang l’ordine di inviare 4 sherpa dal Campo base a Campo 2, passando
ancora una volta attraverso l’Ice Fall, per preparare il corpo al trasporto in
elicottero. Sono partiti all’una di notte del 17 – ricorda Dario – , una
giornata che, a pensarci ora, ha rappresentato il giorno migliore della
stagione per tentare la cima dell’Everest.

Tornare al corpo è stato ancor più triste,
questa volta. Quando gli sherpa sono arrivati da Gianni per recuperarlo, si
sono accorti che qualcuno gli aveva rubato le scarpe, ricorda con rammarico
Dario. Dettagli, forse. Ma segno che neppure la quota, e tanto meno lo spirito
della montagna, sono garanzia di pietà. Tant’è. Alle 5.45 – continua Dario –
l’elicottero pilotato da Gerold della Air Zermatt e dal capo pilota Sabin della
Fishtail è venuto a prendermi a Khumjung. Abbiamo volato fino a Periche, dove
abbiamo predisposto il sistema di cavi che avrebbe dovuto usare Bruno Jellk per
il recupero. Poi, più su nella valle, a Gorak Shep, abbiamo installato un
deposito e da qui è partito l’elicottero con Gerold ai comandi e Bruno appeso
ai cavi. Tutto il peso è stato ridotto al minimo e i due sono stati dotati di
ossigeno pronto da usare in caso di emergenza.

Con questo assetto, i soccorritori hanno
dapprima recuperato il corpo di un alpinista russo, Sergey Duganov, morto in
quei giorni sulle pendici del Lhotse e portato a Campo 2 dai membri della
Extreme Everest Expedition, la spedizione organizzata dal governo nepalese per
recuperare il materiale abbandonato in alta quota nel corso degli anni. Poi,
Bruno Jelk e Gerold Biner hanno pensato a Gianni e l’hanno riportato giù. Alla
fine – commenta Dario – il recupero è stato un grande successo. Tutto merito
degli otto sherpa della Active Holidays, sotto la guida di Jyamchang Bhote e
Dorjee Sherpa, la bravura e la competenza di Bruno e Gerold, la perfetta
collaborazione tra le due compagnie di elicotteri. E, naturalmente, il
coordinamento dello stesso Dario.

Il corpo di Gianni, infine, è stato
trasportato a Gorak Shep e da qui a Kathmandu, dove è stato consegnato alle
mani di Lhakpa Gyalzen Sherpa, della Asia Rescue & Medical Service (Arms –
India), e portato in ospedale. L’ambasciata svizzera, dal canto suo, si è
invece prodigata per sbrigare le formalità burocratiche, in accordo con Dorjee
Sherpa. Ai primi di giugno, l’ultima puntata. Un invito in Ambasciata da
parte dell’ambasciatore svizzero, Thomas Gass, a tutte le persone coinvolte nell’operazione.
E la consegna, a mano, di una lettera di formale ringraziamento.

Giancarlo Costa

Snowboarder, corridore di montagna, autore per i siti outdoorpassion.it runningpassion.it snowpassion.it e bici.news. In passato collaboratore della rivista SNOWBOARDER MAGAZINE dal 1996 al 1999, collaboratore della rivista ON BOARD nel 2000. Responsabile tecnico della rivista BACKCOUNTRY nel 2001. Responsabile tecnico della rivista MONTAGNARD e MONTAGNARD FREE PRESS dal 2002 al 2006. Collaboratore della rivista MADE FOR SPORT nel 2006.