L’era del cinghiale
Nel dopoguerra erano quasi scomparsi, oggi sono in tutta Italia e vivono sempre più vicini ai centri urbani. Censimenti ufficiali dei cinghiali non esistono, ma è certo che sono tantissimi. Che fare quindi? La parola a scienziati ed esperti di gestione della fauna per fotografare una situazione dal difficile controllo.
Sono ormai dappertutto: dalle creste alpine alle risaie di pianura, passando per coste, colline, paludi e città, non c’è un angolo di paesaggio della Penisola che non abbia assistito al passaggio del cinghiale. Non a caso, questo ungulato dal pelo ispido e il grugno muscoloso è considerato uno dei mammiferi più invasivi al mondo, grazie alle sue straordinarie capacità di adattamento: il cinghiale è forte, intelligente e scaltro, ha pochi predatori naturali, mangia qualsiasi cosa e vive bene praticamente dovunque. Prima della Seconda Guerra mondiale era quasi scomparso dall’Italia ma, negli ultimi 20 anni, la sua presenza è diventata ubiqua. Anche troppo.
In passato il dibattito sulla sua gestione è rimasto circoscritto più che altro alle diatribe fra i cacciatori che lo volevano sempre più abbondante per ragioni di carniere e gli agricoltori che ne subivano i danni: nell’area della città metropolitana di Torino, solo nel 2017 sono stati accertati circa 660.000 euro di danni ai campi coltivati. Ma le immagini più recenti di cinghiali che grufolano per le vie della città in cerca di cibo e le cronache degli incidenti stradali causati dall’attraversamento degli ungulati, hanno segnato un cambio di passo. E’ come se la comparsa di questi animali selvatici fra le case e nei pressi dei cassonetti dell’immondizia ci costringesse a confrontaci con i limiti dell’urbanizzazione. L’espandersi dei nostri centri abitati, con la conseguente produzione di fiumi di spazzatura, ha attirato i cinghiali sempre più vicino. Un tempo, quando le campagne erano popolose, l’uomo era abituato a convivere con questa specie. Ma ora che ci segue nelle nostre città, la convivenza non funziona più per vari motivi, non ultimo il fatto che i cinghiali possono portare anche una serie di malattie contagiose per l’essere umano, come tubercolosi, influenza suina ed epatite E.
Un problema diffuso
Una magra consolazione è sapere che il problema non riguarda una città in particolare. Nella periferia di Genova gli avvistamenti sono frequenti e l’ultimo caso di una vittima risale agli inizi di settembre, quando un uomo è stato ucciso da un branco di cinghiali nell’orto di casa a Rovegno, nell’entroterra del capoluogo ligure. La Regione Lazio e la Città metropolitana di Torino hanno varato nel 2019 piani per il contenimento dei cinghiali in aree urbane. Nel Comune di Firenze l’anno scorso sono stati catturati o uccisi 480 animali, mentre nel Comune di Bari sono stati un centinaio e quest’estate il sindaco locale è corso ai ripari con un’ordinanza per ribadire il divieto di cibare le bestie e limitare l’esposizione dell’immondizia a certe fasce orarie nei quartieri più colpiti. All’estero la situazione non è diversa: a Barcellona, Houston e Hong Kong esemplari di cinghiali sono stati avvistati a tutte le ore del giorno. A Berlino il comune paga addirittura una squadra di cacciatori urbani professionisti per tenere a bada i circa 3000 esemplari che si stima vivano fra i parchi cittadini.
Purtroppo ancora non esiste un modello di gestione del cinghiale veramente riuscito, neanche all’estero, sottolinea Aurelio Perrone, esperto della conservazione della fauna dell’Università di Torino. In occasione di un convegno internazionale sul cinghiale ho incontrato anche dei ricercatori che lavorano sul controllo di questo animale in Australia, dove, da alloctono importato, ha invaso le zone di pascolo diventando una minaccia per gli agnelli. Hanno usato tutti i sistemi immaginabili, compresi fucili a tutte le ore, veleni, gabbie. Ma non sono riusciti comunque a controllarlo.
In Italia, le ragioni del vertiginoso aumento della popolazione di questo ungulato sono varie. Il progressivo abbandono delle zone pedemontane e appenniniche, un tempo coltivate, ha favorito l’espansione delle zone boschive, habitat ideale per questo animale. Nel frattempo, la diffusione in pianura di coltivazioni caloriche come il mais, di cui il cinghiale è ghiotto, ha contribuito ad aumentare la capacità riproduttiva delle femmine, capaci di avere anche due calori l’anno anziché uno, come succede quando il cibo è più scarso. La pratica delle immissioni e dei ripopolamenti a scopo venatorio in voga fino agli anni Novanta ha sicuramente accelerato il sovrappopolamento della Penisola. Così come l’usanza, ormai vietata ma non ancora scomparsa, di foraggiare artificialmente i cinghiali nelle stagioni invernali al fine di assicurarne una presenza abbondante durante il periodo di caccia. Un’altra ragione sta nella spiccata mobilità di questo animale, capace di espandere facilmente il proprio areale. Spesso i branchi passano la notte insieme per poi dividersi durante il giorno in cerca cibo. Quando si ritrovano la sera, alcuni esemplari sono in grado di analizzare con l’olfatto le deiezioni dei compagni per stabilire chi ha mangiato meglio e di conseguenza chi è giusto seguire il giorno seguente per trovare cibo.
Stime oggettive sulle dimensioni reali della popolazione di cinghiali in Italia non ne esistono, ma gli esperti di conservazione sono tutti concordi nel giudicare che i livelli di densità sostenibile sono stati ormai oltrepassati. Basti pensare che, negli ultimi 20 anni, nei soli parchi piemontesi – che sono il 10% del territorio regionale e che in taluni casi non vedono la presenza del cinghiale – si è dovuti passare da zero a 2-3mila cinghiali abbattuti ogni anno.
C’è una scarsità di dati a livello nazionale che rende difficile parlare di cifre esatte, ma possiamo tranquillamente affermare che, per tornare ad avere una presenza sostenibile della specie, dovremmo almeno dimezzare il numero di cinghiali, dice Andrea Monaco, esperto di gestione faunistica della Regione Lazio e autore delle Linee guida sulla Gestione del cinghiale pubblicate per il Ministero dell’Agricoltura. Non esiste una risposta unica per ridurre il numero di cinghiali. Serve un approccio integrato e modulato secondo la situazione. Ma la vera criticità è di natura sociale e culturale: chi si occupa di conservazione della fauna selvatica passa buona parte del tempo a gestire conflitti fra portatori d’interessi contrastanti come gli animalisti, i cacciatori e gli agricoltori. Si fatica a instillare una visione corretta del rapporto uomo-natura.
Da un lato ci sono i cacciatori che non vogliono accettare l’idea di ridurre il carniere realizzabile nel periodo di caccia, riconoscendo che la densità attuale del cinghiale è insostenibile. Dall’altro gli attivisti che difendono a oltranza il diritto alla vita dell’animale e, pur riconoscendo i limiti attuali dei metodi ecologici di contenimento come le recinzioni elettriche e sonore, non transige sull’uso di quelli cruenti come l’abbattimento, sia pure con sedazione ed eutanasia.
Bisognerebbe puntare all’uso di metodi anticoncezionali farmacologici tramite maggiori finanziamenti alla ricerca, sottolinea Massimo Vitturi della LAV. Effettivamente nel Parco della Maremma un metodo efficace per distribuire una pillola anticoncezionale tramite esche contenute in vasche con coperchi che solo i cinghiali riescono ad aprire, evitando così il rischio di sterilizzare altre specie, è stata sperimentata con successo. Purtroppo, però, la pillola in sé non è ancora stata perfezionata. Fra ricerca, sperimentazione e commercializzazione, non è chiaro quanto tempo passerà prima che sia disponibile, dice Andrea Sforzi, biologo che ha sperimentato il metodo BOS nel Parco regionale della Maremma.
Poi ci sono gli agricoltori che negli ultimi anni hanno subito danni ingenti e in mezzo c’è chi deve intervenire per gestire una situazione che rischia di essere fuori controllo, come gli esperti di conservazione e i nuclei di vigilanza faunistico-ambientale che si ritrovano a dover fare i conti con una legge obsoleta, pensata negli anni Ottanta e approvata nel 1992, quando la situazione era completamente diversa. L’impossibilità di coinvolgere il mondo venatorio al di fuori del periodo di caccia per operazioni di controllo faunistico rende tutto più difficile, dice Monaco, esemplificando uno dei limiti della normativa vigente.
Mitigare i rischi, in attesa di un futuro migliore
Mentre si fatica a controllarne la proliferazione, le conseguenze negative della sovrappopolazione si manifestano in modi sempre più concreti sul territorio: il tamponamento avvenuto a inizio anno nei pressi di Lodi, quando un gruppo di cinghiali ha attraversato la A1 causando una vittima e dieci feriti, è l’esempio più eclatante. Ma secondo Coldiretti, l’ungulato è alla base di quasi la metà dei 7000 incidenti stradali avvenuti in Piemonte negli ultimi 6 anni. E mentre si attende di trovare una soluzione più comprensiva che metta ordine, ci sarebbero degli interventi possibili per ridurre alcuni rischi: costruire passaggi sotterranei o sopraelevati per consentire alla fauna di attraversare in sicurezza le zone maggiormente frequentate è uno. In altri paesi europei sono la norma quando si costruisce una strada, da noi sono ancora un’eccezione, dice Sforzi.
Secondo la tradizione celtica, l’era del cinghiale bianco è un’epoca mitologica nella quale gli esseri umani raggiungono la piena consapevolezza spirituale. Alla fine degli anni Settanta, nel ritornello del suo brano omonimo, Franco Battiato si augurava il ritorno di quest’epoca. Chissà se l’invasione attuale del cinghiale, anche se in versione più bruna, non possa almeno essere considerata come un buon augurio in tal senso.
Fonte Piemonte Parchi